| il dolce blaterale, b-l-a-t-e-r-a-r-e |
Da un paio di anni frequento da spettatrice la beauty community italiana dedicata alla cosmesi. All’interno di questo contesto noto che le varie beauty-influencers realizzano linee o prodotti di bellezza che portano il loro nome, una pratica piuttosto antica. Da tempi remoti l'uomo vende prodotti nei quali iscrive discorsi di rappresentazione dell'identità (penso, ad esempio, alla vendita di rosari, acque sante, frammenti di relique, etc,.)
Oggi si assiste ad un discorso nel quale viene commercializzata la propria identità che si trasforma in un'icona da brandizzare. Come nel caso di una beauty influencer, che seguo con piacere, che ha realizzato la sua linea di prodotti di bellezza (lo so, l'uso di «beauty» sarebbe stato più intrigante, ma in italiano suona più evocativo). Nel presentare il suo marchio scrive:
Ho oscurato il nome perché vorrei che la sua persona passasse in secondo piano. È più funzionale analizzare come sta commercializzando il suo prodotto, per indurre il membro della sua community all'acquisto della palette.
In questa descrizione si attenzionano un paio di elementi. Il primo è il voler sottolineare lo sforzo personale e gli anni di intenso lavoro. La nostra società, infatti, imposta il rapporto tra lavoro e uomo in forme quali la fatica, lo struggimento al fine di raggiungere gli obiettivi sperati. Poi, viene inserito il tema delle abilità acquisite, in modo da certificare che sia una persona competente e che il «suo» prodotto sia affidabile.
Nella seconda parte di questa presentazione emerge una criticità, un punto su cui vorrei riflettere. La guru di bellezza «sente il bisogno» di realizzare qualcosa «di uso», utilizzando quelle che «secondo lei sono le migliori blabla», per creare dei prodotti «ascoltando soprattutto la propria community».
Il consumatore è messo nelle condizioni di empatizzare con quel venditore e con i suoi sacrifici ed inoltre sta comprando un prodotto realizzato e negoziato attraverso la partecipazione dei membri della community. Anche se, però, non ci è dato sapere che tipo di ascolto venga adoperato per la realizzazione di questi prodotti. É qui che noto l'ambiguità. Se vuole creare qualcosa di suo, utilizzando le migliori texture da lei scovate, come riesce a creare prodotti insieme ai suoi seguaci? Questo ascolto, forse, verrà perseguito in futuro?
Nella commercializzazione, la beauty-lady mischia istanze personali e collettive: «per me» o «soprattutto per voi». Per un richiamo all’emotività del consumatore, dato che egli appartiene alla sua «community».
Da studentessa di antropologia trovo che questa narrazione sia accattivante e ricca di spunti interessanti per capire come i soggetti imprenditoriali impostino strategie per conquistarsi la fiducia del loro pubblico.
Voi cosa ne pensate? Su cosa sta insistendo questa imprenditrice per presentare il suo prodotto? Cosa ci leggete?
Il posti di oggi è dedicato allo scontro titanico tra due teorie che ho sempre trovato affascinanti, seppur carenti in alcuni punti. Il determinismo filosofico e il libero arbitrio sono stati il fulcro centrali di molti pensatori, pensiamo a Spinoza o ad Agostino D’Ipponia. Se il determinismo ritiene che l’uomo è espressione della volontà di un “””qualcos’altro”””, il libero arbitrio scioglie questa visione così limitata dando all’uomo quella possibilità di fare e agire che il primo nega. Dunque il futuro viene scoperto o creto? L’uomo è pedina di un percorso oppure ne è l’artefice? Lasciando da parte questa visione leggermente apocalittica e in simil “congrega religiosa” (^.^) ritengo adesso che il “the future” sia il congiugimento di queste due espressioni di pensiero. E’ impensabile ritenere che ci muoviamo all’interno di percorsi e destini prestabiliti, in quanto il tutto sfocierebbe in una visione piuttosto statica e inflessibile. Ma neanche ritenere che tutto dipenda dalla volontà del singolo soggetto è carente. E’ utile adesso generare una visione in cui ritrovare insieme la capacità di costruzione del proprio percorso e “quel qualcosa al di sopra” di lui. Per iniziare ad avere un quadro meno confuso, il “the future” è la somma e il frutto del suo agire. L’uomo poi vive all’interno di un mondo dove “quel qualcosa” riveste anch’esso un ruolo. In conclusione, come l’uomo è creatore, è anche influenzabile dall’azione delle forze di “quel qualcos’altro” in senso negativo che positivo.
... e tu che ne pensi?
oltre|passa-menti ~ \/ ~ che sia chi sei tu
Cosa accadrebbe, se un nuovo resoconto agitasse le conclusioni desunte?
| La pubblicità progresso |
Mentre camminavo per le strade di Taormina il mio sguardo viene “catturato”, per deformazione professionale, da questi negozi: “Arte paesana” o “Etnic one”, siti in una delle vie principali del centro.
Mi colpiscono perché sono vocaboli del gergo antropologico, nel senso che la disciplina antropologica da sempre si è confrontata con i concetti di identità e rappresentazione culturale.
Da brava aspirante ricercatrice mi sono documentata e:
per ciò che concerne “Arte paesana” è «un’attività che affonda le sue radici nella figura di Vincenzo Daneu (Trieste 1860 - Taormina 1937) fonda, a Palermo, un’impresa commerciale, a conduzione familiare, di piccolo e alto antiquariato prediligendo l’arte “paesana” di Sicilia e di Sardegna»; il «punto vendita propone tovaglie e ricami ottocenteschi»;
invece “Etnic one”, come riportato nel sito web, «offre un'esperienza di shopping sensoriale unica ai suoi clienti […] abbigliamento etnico particolare e scelto con cura, gioielli, accessori e home-decor».
È lampante che questi soggetti imprenditoriali si sono appropriati di alcune terminologie, riadattandole e rivendicandole come segni caratteristici.
In parallelo e sotto un certo punto di vista, queste attività sono portatrici di un’ambivalenza, ovvero che essenzializzano “l’arte del paese” o lo stile etnico.
Ripenso al dibattito nel mondo dell’arte di fine Ottocento, quando l’Occidente istituiva musei e vi esibiva oggetti provenienti dalle colonie d’oltremare. Ad esempio, le maschere africane venivano considerate come “arte primitiva” e gli occidentali si mostravano riluttanti a considerare che quelle potessero essere delle forme di arte alla stregua del Mose di Michelangelo. Sally Price ne I primitivi traditi (1992) «ha messo in discussione l’etnocentrismo con il quale le categorie e le forme di valutazione dell’arte occidentale hanno escluso gli oggetti non-occidentali (Caoci 208, 160)». Infatti, l’arte primitiva veniva considerata semplice ed elementare rispetto a quella occidentale, era vista come il prodotto di pulsioni istintuali o psicologiche. Gli artisti primitivi erano gli «esponenti incontaminati dell’inconscio dell'uomo», mentre gli occidentali erano i soli che potessero accedere ad una forma di estetica cosciente. Pertanto l’arte occidentale non era mai sottoposta alla reazione dei primitivi, perché questi non venivano ritenuti in grado di partecipare ad esperienze estetiche che oltrepassino i confini delle proprie culture.
Da queste considerazioni è evidente che se leggo “arte paesana” o “etnico” rimango leggermente interdetta, perché ripenso al dibattito che decostruisce ed epura da certe viziositá. Vedere che, invece, c'è una tendenza al ri-attualizzare e al ri-appropriarsi di certe parole è piuttosto curioso ed insolito.
Orbene, con questa riflessione non vorrei essere io a tipicizzare le istanze delle due attività commerciali. Ritengo che sarebbe più produttivo l’ascolto delle scelte dell’imprenditore o della imprenditrice per l’uso di quel termine o di andare direttamente al nocciolo della questione chiedendosi: "ma chi boli diri “arte paesana”? (Per i non catanesi = che significato assumono questi concetti nel XXI secolo?).
Caoci A., 2008, Antropologia, estetica e arte. Antologia di scritti.
Price S., 1992, I primitivi traditi. L'arte dei «selvaggi» e la presunzione occidentale.
Siti per approfondire Vincenzo Daneu: (Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Palermo, via Garibaldi, 41, Palermo (2021) (govserv.org)); Shopping d’autore a Taormina (compagniadeiviaggiatori.com)
Sito web "Etnic One": (etnicone.com/)
|| keep it in case of an emergency ||
ostinazioni & banalità
Perché è così difficile bloccare e far tacere il sordido meccanismo che si aziona nel momento in cui tutto sembrerebbe orientato a dedurre la “realtà”... ma che però nella realtà si verifica che il tutto è frutto di una proiezione mentale.
Davvero, a volte, ma solo in specifici casi, vorrei avere un super-power... per silenziare il complesso “giudicante” che affiora quando mi rapporto a circostanze che farebbero supporre cose su cose di altre cose.
💖Se nel 1988 Almodovar intitolava un suo film "Donne sull'orlo di una crisi di nervi", oggi sarebbe "Studentessa di antropologia sull'orlo di una crisi di nervi".💖
Come si può riuscire a frequentare questa realtà culturale senza che venga minato l'equilibrio psico-fisico?
Più osservo la realtà attraverso i filtri dell'antropologia, più noto forme di disagio nell'organizzazione della vita che si sviluppa intorno a me. I ritmi di vita sono fin troppo frenetici e veloci. Se non esiste più il cottimo o la catena di montaggio di Henry Ford, oggi proliferano i seguenti mindset: “Non c’è mai tempo”. Ma se il concetto di tempo è, essenzialmente, un prodotto disciplinato dai vari contesti culturali: perché l’uomo decide di rappresentare gli spazi temporali come limitati? Il futuro è come se fosse qualcosa che non esistesse, ma che tutto debba essere consumato nell’eterno presente. Di conseguenza, questa concezione consumistica del tempo entra in tilt quando si realizza che al mondo non si è solo mente o idee, ma anche corpo dove le controindicazioni di questa impostazione non tardano a presentarsi…
La maggior parte delle volte si guida il pensiero verso lo stato di fissazione per mancanza di alternative.
| Se l’acqua calda venisse teorizzata |
Fino ad un certo punto della mia esistenza ho ritenuto che le estetiche, le mode e le tendenze si dividessero in due categorie: quelle della ‘massa’ e quelle ‘ricercate’. Con la frequentazione e l’osservazione dei contesti virtuali (odio questa parola ma è per intenderci) ho mutato di pensiero. Inizio a guardare la distinzione in maniera più critica, affermando che essa è semplice-mente un artificio culturale e che non tiene in considerazione la realtà odierna.
In tempi recenti, mi sono approcciata a nuovi universi (cinema, musica, letteratura) ritenendo che alcuni stili fossero di una cerchia “ristretta”, “unici” e di difficile accesso, ma quando ho iniziato a cercarli online: è emersa una solida rete di proseliti che si nutre ed alimenta questi contenuti (blog, video su Youtube, playlist).
Sicuramente verrò tacciata di ingenuità, ma credo che fino a pochi anni fa non era così.
C’è un preciso momento che ha portato all’omogeneizzazione delle estetiche: l’avvento di internet, che ha permesso di andare oltre il concetto di 'nicchia'. Ad “aggravare” ulteriormente la situazione interviene quel fastidioso e invasivo meccanismo di personalizzazione dei contenuti: se inizio a ‘likkare’ i post dedicati ai meme sui gattini mi piazzano tutti gli account e i profili correlati, andando a radicalizzare la mia identità e "ad aggiungerla" ad altre persone per quel principio di "in comune" o "nella mia cerchia".
In questo scenario, tutto può trasformarsi in comunità di seguaci e le demarcazioni saltano grazie agli hashtags o agli "account simili ".
A questo punto il rapporto tra oggetto e fruitore dovrebbe essere guardato con più sincerità e onestà. Quanto a me, dovrei togliere quell’aura di misticismo che aleggia intorno a certe forme "d'arte".